Pia de’ Tolomei: “Ho pagato il mio debito”

Sì, mia bella, triste, addolorata signora; sì, mio mesto e ostinato fantasma che tanto spesso mi hai chiesto di ricordare e tanto poco di te mi hai svelato. Anche di te ho lasciato memoria per quelli che in futuro leggeranno quanto ho lasciato scritto per loro.

Non ricordo bene come e quando cominciarono i nostri incontri. Che siano sempre stati soltanto in sogno, ne sono quasi certo: sebbene due o tre volte mi sembra di averti vista svanire nel dormiveglia. Credo che la prima volta sia stato in uno dei castelli di messer Moroello, là nella pietrosa Garfagnana; o in uno di quelli di messer Guido, nel verde boscoso Casentino. Avevo da poco intrapreso la via dell’esilio e ancora speravo di poter tornare a vedere, un giorno, le mura e le torri della mia città, la mia casa all’ombra della Torre della Castagna, la mia cara chiesetta di San Martino del Vescovo davanti alla quale tante volte alla domenica, dopo la messa, ho distribuito ai poveri il pane e i pìccioli d’argento.

Sapevo, sentivo ch’eri stata giovane e bella; avevo compreso fin dal primo istante che l’uomo – forse ben più anziano di te – che ti aveva portata via dalla dimora dei tuoi ti aveva tuttavia trascurata lasciando sfiorire la tua grazia, o forse umiliata preferendo a te l’amplesso illecito di qualcun’altra. Chi l’aveva mai capito, quel cavaliere scontroso che senza una parola ti lasciava nel talamo, all’alba, partendo con cane e falcone e cavallo e ogni sera tornava all’imbrunire al suono dei corni dei suoi staffieri, lordo del sangue dei cinghiali e dei cervi che aveva ucciso? Uccidere, uccidere, uccidere senza mai sorridere, senza mai parlare: solo di questo era capace. E anche quando ti prendeva, raramente, alla sera – debitum coniugale, lo chiamano i preti…-, e per un istante ti accorgevi di esser finalmente quasi felice, si saziava subito di te per addormentarsi poi d’un sonno pesante.

«Deh, quando sarai tornato al mondo,e riposato della lunga via…ricorditi di me che son la pia…»: la prima volta che li ho sentiti netti nella mia mente, questi versi, mi sono svegliato di soprassalto e subito li ho trascritti. Mi hanno accompagnato per anni: e mai vi ho tolto, mai vi ho aggiunto nulla. Sono tuoi, non miei.Sì, salvo forse una cosa. Ho creduto a lungo che tu volessi parlarmi della tua fede religiosa, di quella pietas ch’è ben più alta e profonda cosa rispetto alla «pietà», alla compassione che il volgo degli illetterati intende quando una quella parola che sembra tanto banale e ch’è invece tanto misteriosa. Anche Enea era pio, come rammenta il mio Virgilio. Tu volevi indicarmi come la fede e la preghiera fossero stati il vero, l’unico effettivo conforto della tua vita di giovane virtuosa prima, di sposa fedele e ben più casta di quanto sarebbe stato giusto più tardi.Ma compresi nel tempo che non era così. Non avevo mai avuto troppa consuetudine con la bella ma ostile città di Siena. I miei parenti erano debitori per una forte somma di danaro della «Gran Tavola» dei Bonsignori: e, anche prima della vergogna di Montaperti, non amavano rammentare spesso quelle torri e quelle strade così piene del rosso dei mattoni e del bianco sporco del travertino, tanto diverse dal bigio della pietra serena e dal risplendente marmo di Firenze. Ma era gente vana, quella senese: tanto vanitosa e vanagloriosa, con le sue «brigate» che organizzavano giochi e balli e solevano sperperare i loro averi, quanto noialtri eravamo sobri e parsimoniosi, magari addirittura più dei lucchesi. Ed era gente nata fra montagne aride e che doveva attraversar maremme inospitali prima di giungere al mare: gente abituata a scavar lunghi cunicoli sotterranei alla ricerca dell’acqua e che favoleggiava d’un fiume nascosto, la Diana…Ecco altri due tuoi connotati, mia bella triste signora.

«Siena mi fé, disfecemi Maremma».

Eri quindi senese di nascita, e l’amara Maremma ti era stata in qualche modo fatale. Come? Quel «disfecemi» che ripetevi ogni volta nelle tue notturne apparizioni mi sapeva di sepolcro, di carne e di ossa putrefatte; oppure di un corpo dal quale la vita esce lentamente lasciando dietro di sé l’afrore di un corpo arso dalla febbre, smagrito dalle veglie e dal disprezzo di un’anima che vi ha albergato senza mai amarlo.Ed ecco svelarsi il senso di quelle tre lettere: non era pia di modi e di carattere, era Pia di nome. Bastava chiedere, cercare, indagare: perché sentivo intimamente come cosa certa che quelle poche parole, sempre uguali, ch’essa soleva rivolgermi, erano un messaggio accorato e rispondente a una verità segreta, nascosta.

Subito pensai alla nobile e altera schiatta dei Tolomei, così fieri della loro discendenza dalla lussuriosa Cleopatra. Come si fa a gloriarsi di una puttana suicida? Certo, quella là non era una puttana qualunque: era la Gran Puttana, che aveva sollazzato Cesare e Marco Antonio e che al grande Giulio conditor imperii aveva partorito un figlio il quale, se non ci si fossero messi di mezzo i vili Bruto e Cassio e il divo Ottaviano Augusto, sarebbe un giorno asceso al trono regale restaurato dell’Urbe, e la storia del mondo sarebbe stata diversa. I Tolomei, con la loro arme araldica d’azzurro come il mare che rispecchia la bella Alessandria e caricata dei tre crescenti aurei già sacri alla dea Iside prima di passare agli infedeli seguaci dello scismatico Maometto. Era quindi lei quella Pia convolata a giuste ancorché brutali nozze – un rapimento, forse uno stupro…- con messer Nello de’ Pannocchieschi della Pietra, sire feudale ispido come i cinghiali ch’era abituato a cacciare nelle paludi tra Cècina e Corneto. Un padrone della Maremma, come gli Aldobrandeschi e i Berardenghi. Era così? E fioccavano le leggende: si diceva che il cupo castellano l’avesse sgozzata in un momento d’ubriachezza, o che avesse ordinato di rinchiuderla nella segreta di una torre e di lasciarla morire di fame perché invaghito d’una giovane gelosa e crudele.

Il fatto era però – e me lo aveva a suo tempo confermato anche quel senese strano e a modo suo geniale, quel Cecco Angiolieri che non era granché mio amico, anzi ce l’aveva con me…- che tra i Tolomei non fosse mai figurata una che portasse quel nome; altri però sostenevano che fosse una del casato dei Malavolti, in effetti andata sposa a un altro maremmano scontroso e illustre, Bertoldo – detto Tollo – da Prata. Dicono che esistono i documenti i quali attestano di questo legame coniugale: e quando ci sono le carte, prima o poi scappan fuori.

Ecco qua, mia bella triste signora, mio mesto e fedele amico fantasma. Arrivato in questa Ravenna tanto spesso avvolta dai miasmi di paludi che nulla hanno da invidiare a quelle maremmane, qui ai margini d’una pineta sul mare dove si dice che tanto spesso appaiano dèmoni e spettri ben più lugubri e spaventosi di te così lieve e gentile, sento che questo è il mio porto. Qui si dice che dal porto di Classe, come da quello di Ostia, partano ogni notte le navi dal fasciame di bruma e dalle vele di nebbia che trasportano le anime verso la Montagna del Purgatorio. Tra non molti anni forse ci salirò anch’io: e un angelo dal volto severo come quello dei suoi colleghi effigiati nei mosaici di San Vitale m’indicherà il mio posto facendomi con l’indice sulle labbra segno di far silenzio.

Così, agli antipodi di questo mondo, alfine ci conosceremo. E aspetteremo insieme, là su una riva non troppo diversa da quella maremmana o da quella romagnola, che un altro angelo severo ci faccia segno di passare affrontando la salita al culmine della quale ci aspetterà – come io di continuo prego – la visione mirifica di Dio.