Cacciaguida. Per lui Farinata non lesinò lodi

I guelfi fiorentini, mischiati alla popolaglia dei mercanti e degli usurai che avevano osato profanare il bel gonfalone della città tingendo di sangue il giglio, erano stati sconfitti, e la maledetta bandiera dei sediziosi era finita nella polvere, calpestata dai cavalli dei vendicatori. Sarebbe stato necessario perfezionare l’opera iniziata, distruggere la città maledetta. Ma perché mai si era messo così di traverso, messer Manente, proprio lui?

Si erano riuniti nel refettorio della badia benedettina di Firenze, nella chiesa della quale dormiva (e dorme) Ugo di Lorena, duca di Tuscia. Si erano rifiutati concordi di usare i magnifici ambienti che da pochi anni sorgevano proprio accanto alla Badia, a ovest di essa, sulla linea delle antiche mura romane, quelle della cerchia antica di «Florentia». Quel forte ed elegante «palagio» era stato eretto dopo il 1250, dopo la vittoria di quel «Primo Popolo» che aveva estromesso dalla città quasi tutti gli aristocratici di più antica schiatta e tutti gli esponenti di spicco della parte ghibellina. Due anni dopo che, grazie ai suoi sostenitori, l’imperatore Federico era riuscito a imporre di nuovo alla città riottosa il giusto ordine politico secondo la sua volontà, i maledetti guelfi si erano alleati con quella genìa infame di mercanti, di bottegai, di usurai che aveva inventato un’istituzione surrettizia per giustificare l’usurpazione, il «Popolo» appunto. Purtroppo l’imperatore era venuto a mancare poco dopo, nel dicembre di quello stesso anno, e da allora nulla era più andato come avrebbe dovuto. Lo scettro imperiale, passato in deboli e insicure mani, era finito per rotolare al suolo: ed erano in troppi, adesso, a tentare di raccoglierlo, mentre gli intriganti della curia romana e i loro servitori, quelli della parte guelfa, tramavano affinché l’ordine compromesso non fosse più restaurato.Ma la gloriosa giornata di Montaperti, alle porte di Siena, aveva finalmente fornito un segno che qualcosa si poteva fare per porre rimedio allo sfacelo. E da Palermo re Manfredi di Svevia, figlio di Federico e suo successore come sovrano di Sicilia, dava segno di voler ricomporre la compagine imperiale.

Proprio di ciò i ghibellini di Toscana, i grandi feudatari insieme con i rappresentanti delle buone città di Siena, di Pisa e di Arezzo, avevano discusso nel congresso di Empoli.«Delenda Florentia», esattamente come il saggio Catone incitava a fare con Cartagine ai tempi dell’antica Roma! Firenze, che sempre aveva tramato contro il nome e l’onore dell’impero fino ad approfittare della scomparsa di Federico Augusto per usurpare uno dei suoi massimi «iura regalia», il diritto di coniar moneta d’oro. «Fiorino», proprio così, lo avevano chiamato – maledetto fiore! – quello strumento d’ingiustizia e di corruzione che aveva svalutato e deprezzato tutte le buone monete argentee della penisola, che aveva provocato la crisi della «Magna Tabula» dei senesi Bonsignori fedeli sudditi dell’impero, che in due lustri aveva fatto di Firenze la città più ricca della Cristianità latina e che con l’opulenza aveva introdotto i vizi peggiori e l’immoralità più spregevole. Ed erano state le famiglie della «gente nova», i nuovi ricchi che gestivano lo strumento politico e istituzionale del «Popolo» così come manovravano con le loro banche il flusso delle merci nel Mediterraneo, erano state le loro donne avide di abiti lussuosi e di piaceri mondani a corrompere la Toscana tutta, l’Italia, la Cristianità. Di questo si era parlato a Empoli.

Tutti erano d’accordo. Solo uno si era opposto. Lui. Messer Manente degli Uberti, discendente di una consorteria già fiorentinissima un secolo prima, ai tempi del Barbarossa del quale era vigorosa sostenitrice. Manente degli Uberti: ardito e coraggioso come Rolando, virtuoso e fedele in quanto consorte, ascetico nei costumi. Manente che non mangiava carne e non beveva vino: e, pur rimanendo vigoroso, si era fatto per questo tanto pallido e magro che la gente lo aveva soprannominato «Farinata». E di tale soprannome egli si era fatto una bandiera: se ne gloriava. Il fatto è – lo sapevano tutti, soprattutto i preti – che Farinata era un nemico accanito della Chiesa corrotta e mondana, che avrebbe voluto riformare dalle radici per sostituire la gerarchia romana con un’assemblea di veri poveri a somiglianza del Cristo. Farinata era un «patarino», come diceva la gente; o meglio un «cataro», strana parola che veniva usata da quando, in Linguadoca, era stata bandita una crociata contro gli eretici albigesi.

Aveva molti avversari, messer Manente: molti che lo temevano e lo inviavano. Ma nessun ghibellino, dalla Lombardia dov’egli aveva tenuto testa al terribile Ezzelino da Romano fino alla Sicilia dove si sapeva ch’egli era tra i pochi ad aver diretto accesso alla reggia palermitana di re Manfredi, poteva eguagliarlo in autorevolezza e in dirittura morale. Per questo, dopo aver accettato per amor suo, o per paura di lui, di non toccare la «sua» Firenze, ora i capi ghibellini di Toscana si affidavano a lui affinché ripulisse la città dei maledetti guelfi, degli indegni capipopolo tra i bottegai e gli usurai, di tutti quelli che avrebbero potuto esser d’ostacolo alla rinascita dell’autorità del santo impero in quel lungo, difficile momento di vacanza del trono.

C’era un gran brusio, nel refettorio della badia: ma come vi fece ingresso messer Manente parve si rinnovasse quanto sta scritto nel libro dell’«Apocalisse»: quando l’angelo aprì il settimo sigillo, «nel cielo si fece un silenzio di circa mezz’ora». Le molte decine di maggioranti che riempivano la sala tacquero d’incanto e s’inginocchiarono per rialzarsi subito a un suo cenno frettoloso e infastidito. Lui solo sedette su una semplice «cattedra» di legno, uno di quei sedili ampi sui quali stavano installati i maestri degli «Studia» quando insegnavano; tutti gli altri, anche i più vecchi, s’installarono su rozze panche o alla meglio sulla paglia predisposta sul pavimento freddo, come usano fare gli studenti. Gli furono recate solennemente le carte sulle quali la commissione di capifamiglia ghibellini e di notai a quello scopo radunata avevano segnato, sestiere per sestiere, i nomi dei cittadini che avrebbero dovuto esser giudicati. Molti di loro, già si sapeva, sarebbero stati condannati all’esilio: nei casi più gravi, che non erano affatto pochi, il massimo della pena prevedeva l’esilio perpetuo per il condannato e tutta la sua famiglia fino alla terza generazione, la confisca totale dei beni immobili e di quelli mobili ch’essi non fossero riusciti a portare con sé caricandoseli addosso e la morte sul rogo con spargimento delle ceneri al vento se avessero osato rientrare clandestinamente in città.

Messer Manente era, come al solito, di poche parole. Il cancelliere della taglia ghibellina, un giudice pisano, dette lettura dei nomi delle persone da giudicare, sestiere per sestiere, cominciando San Pier Scheraggio. A ogni nome Manente pronunziava il verdetto: immediato, ma definitivo; immutabile e indiscutibile. Erano possibili tre risposte: «Resti»; «Esilio per…» (e qui seguivano i numeri dei mesi e degli anni; s’intendeva che la famiglia dell’esule non sarebbe stata frattanto disturbata e i suoi beni lasciati intatti); «Esilio perpetuo» (e si sa che cosa significasse).

Manente si limitava a pronunziare assoluzioni e condanne; non aggiungeva null’altro. Ma quando, giunti al sestiere di Porta San Piero, il cancelliere pronunziò il nome «Alighieri», alzatosi solennemente in piedi ebbe a dichiarare:«Fieramente sono stati avversi e a me e alla mia parte, e già dodici anni fa li ho dispersi. Voglio però che, prima che la sentenza contro quella famiglia sia da me pronunziata, voi rendiate tutti omaggio a un perfetto cittadino, a un fedele cavaliere dell’imperatore Corrado, a un martire della fede caduto combattendo al seguito del suo sovrano nella spedizione in Terrasanta di oltre un secolo fa, che fallì dopo l’inutile assedio di Damasco. Voglio che i buoni cittadini di Firenze rendano omaggio a messer Cacciaguida degli Elisei, capostipite degli Alighieri in quanto si unì in matrimonio con una dama lombarda che portava quel nome ed esso finì con il prevalere. Cacciaguida era un uomo della Firenze che viveva dentro la cerchia antica, quella romana, la quale sarebbe stata ingrandita nel 1178. Quella di allora – i miei antenati, suoi amici, me lo confermano – stava in pace, sobria e pudica, nella quale dame e cavalieri vivevano in serena modestia, senza ostentar abiti costosi né gioielli preziosi, e dove dappertutto regnavano la modestia e la sincerità. Ne era modello la buona Gualdrada, figlia di messer Bellincione Berti de’ Ravignani, tanto virtuosa che lo Guido Guerra IV dei conti Guidi la volle presso di sé come consorte. In quella città non vera posto né per la superbia, né per l’invidia, né per la faziosità, né per l’usura…». «Se abbiamo ben capito, Farinata – osò interromperlo con asprezza Bocca degli Abati, che invidiando la sua fama non perdeva occasione per cercar di umiliarlo -, ci stai per chiedere di non esiliare gli Alighieri in quanto il loro capostipite era amico dei tuoi antenati».«Vi sto al contrario proponendo, caro e illustre concittadino – replicò Manente con una pacatezza e una gentilezza glaciali, che suonarono più terribili di una esplicita minaccia –, di punire esemplarmente i suoi discendenti proprio nel nome e per la gloria del loro virtuoso e incorruttibile avo dal quale hanno tralignato. Che siano dispersi di nuovo, affinché apprendano qual è il costo da pagare quando si abbandonano i costumi e i precetti degli antenati». Erano presenti al convegno di Empoli e poi alla riunione di Firenze alcuni cittadini amici del padre di Dante, che avevano sperato di poterlo aiutare a scampar dall’esilio. Non ce la fecero, ma la pena non durò: nel 1264 morì Farinata, nel ‘67 i guelfi rientrarono a Firenze. Il poeta poté nascere e venir battezzato tranquillamente nella sua città. Qualche anno dopo uno di quegli amici di suo padre, ormai vecchio, gli narrò usando quasi per filo e per segno le parole del grande capo ghibellino di com’egli avesse pronunziato un elogio altissimo del loro copostipite.Dante ricordò quelle parole, che gli rimasero impresse profondamente nella memoria. Molti anni più tardi, ormai esule e anziano, le avrebbe poste una per una sulle labbra di Cacciaguida stesso e le avrebbe fatte echeggiare nel Cielo di Marte.