Giustiniano. L’imperatore modello

La fronte nascosta sotto il diadema aureo tempestato di perle e di gemme. La lunga, ricca clamide d’una porpora rosso-violacea dai riflessi bruni. Serrato fra il braccio sinistro e il petto egli teneva un ampio bacino dorato: e Dante non poté far a meno di correre col pensiero al santo Graal, per quanto i romanzi d’avventura gli suggerivano che la Santa Coppa dovesse trovarsi altrove, che non fosse mai stata a Costantinopoli: e in Occidente c’è chi giurava di averla venerata nella cattedrale di Valencia e chi di averla ammirata a Genova, in San Lorenzo (ma a Valencia non era un bacino aureo bensì una coppa forse di giada, forse di diaspro; e a Genova un catino esagonale tagliato, si diceva, in un unico smeraldo).

Giustiniano imperatore aveva gli occhi grandi e spalancati, come fossero fissi in quelli di Dio e in essi potessero specchiarsi. Guido Novello da Polenta, signore di Ravenna, si era inginocchiato dinanzi a quella santa, venerabile immagine: e tutto il suo seguito lo aveva imitato. «Iustiniane Auguste, Domine Imperator, ora pro nobis!», scandiva ad alta voce l’arcidiacono della basilica; «Ora pro nobis!», ripetevano in coro i presenti.

Quando furono usciti all’aperto – a piedi, com’erano arrivati dalla sede nella quale il signore risiedeva, non lontano di là: un piccolo, breve pellegrinaggio -, egli interpellò il suo ospite curvo e smagrito che gli camminava a lato.«Spero, maestro Dante, che la vista dell’effigie dall’Augusto vi sia parsa coerente con l’idea che ve n’eravate fatta quando lo avete descritto in quel poema che mi avete fatto avere da poco».

L’interpellato chinò un poco la testa e rispose: «Senza dubbio alcuno, messere! La santità di un imperatore cristiano, così come l’ho sempre immaginata, vi è magistralmente ritratta. Anzi, mi permetto di farvi notare che c’è forse qualcosa di più: qualcosa che non sono sicuro sia stata notata prima d’ora…»; «Che cosa?»; «Avrete notato, messere, che a parte la corona l’Augusto non sembra recare alcun attributo del suo potere universale. Non spada, non scettro, non globo imperiale … se non forse un bacino d’oro»; «E che cosa mai potrebb’essere adatto a contenere, quello?»; «Sono certo, signore, che anche voi avete pensato un istante al santo Graal, alla coppa di Giuseppe d’Arimatea custodita dal puro Galaad…»: e qui si fermò di botto, mordendosi il labbro superiore.

Guido Novello sorrise. «Suvvia, mastro Dante, voi mi supponete di cultura molto più viva e pronta di quella che possiedo, ma anche di malizia più sottile di quella che mi attribuisco. Che il puro Galaad fosse figlio del peccatore Lancillotto lo sappiamo tutti, ma che quel cavaliere adultero fosse appunto il protagonista del romanzo letto da mia zia Francesca quel certo giorno del fattaccio, e che le vostre parole celassero un’indiscreta intenzione, via, come vi viene in testa che abbia potuto pensarlo?».

Dante arrossì violentemente: «Vi assicuro, messere…»; «Ma certo, amico mio! Non parliamo di questo. Ho voluto invece invitarvi a questa passeggiata per chiedervi di verificare una mia ipotesi. Il bacino che l’Augusto serra al petto è destinato a contenere acqua purissima, non è vero?»; «Certamente, messere!»; «E quest’acqua non è forse quella sorgiva della Legge, dal momento che l’imperatore è Conditor Legum?»; «Andate avanti, signore: vi prego!»; «Un’acqua che nel tempo abusi e malintesi avevano inquinato e che Giustiniano purificò appunto come spiegate voi nel VI canto del vostro Paradiso, che sono stato forse il secondo a poter leggere dopo il caro, magnifico signor Cangrande da Verona?»; «Non posso che inchinarmi dinanzi alla vostra sagacia, davvero degna di un governante cristiano! Proprio così: Cesare fui, e son Giustiniano, – che, per voler del Prim’Amor ch’i’ sento, – d’entro le leggi trassi il troppo e il vano».

Guido Novello da Polenta si arrestò un istante: i pini circostanti lo riparavano dal sole caldo di quella primavera del 1320. «Sapete ormai anche voi, che pure condividete la mia fede guelfa, che nemmeno noi siamo nemici dell’imperatore, anzi molti di noi gli sono devotissimi»; «Così come so che non sempre voi guelfi siete, anzi noi guelfi siamo, così amici del papa: o, almeno, di certi papi…».Il signore di Ravenna annuì, avviando di nuovo il passo.

«È una cosa sulla quale vi chiedo di meditare, ora che avete capito che quella dell’inimicizia fra guelfi e ghibellini è solo un’ingenua leggenda, se non un’astuta menzogna. Sapete, non so proprio chi ce la farà tra i due contendenti alla corona imperiale, se Ludovico di Baviera nel quale dovrei sperare in quanto guelfo o Federico d’Asburgo, che mi pare alquanto maldestro: però ho l’impressione che il Bavaro, se ce la farà a farsi cinger la corona imperiale – ma da chi?, mi domando: non ce lo vedo a peregrinare fino ad Avignone, e mi chiedo chi potrebbe incoronarlo in Roma…- non sgradirà affatto quel vostro trattato, il De Monarchia, se riusciremo a farglielo arrivare magari con l’aiuto di qualche francescano spirituale…».

Dante restò meditabondo. «Mi par di capire, messere, che voi stiate pensando ancora all’effigie dell’imperatore Giustiniano: e a quel vescovo che gli sta accanto e che sembra un suo cappellano. Certo, lo sappiamo che Costantino Augusto lasciò morendo il vescovo di Roma padrone della sua città. Ma Giustiniano governava non da Roma, bensì da Costantinopoli: e in fondo il vero capo della Chiesa era lui, l’imperatore, e di papi non aveva bisogno…».

Un largo sorriso illuminò il volto di Guido Novello. «Sapete, maestro Dante, se Ludovico re di Germania e dei Romani prevalesse davvero su Federico e volesse far il suo pellegrinaggio a Roma, la sua Romfahrt, per farsi incoronare, magari qualche suo consigliere religioso – quel Guglielmo d’Ockham, per esempio – o anche qualche signore italiano – non vogliamo lasciare il solo messer Sciarra Colonna spadroneggiare tra i sette colli, nevvero? – potrebbe anche suggerirgli arrivato a Verona di non prender la Via Francigena bensì la Romea Adriatica e di raggiunger la Nuova Costantinopoli, la mirabile capitale dell’Esarcato che ha già dato tanto filo da torcere, secoli fa, alle pretese egemoniche dei vescovi di Roma…»; «State pensando, messer Guido, a un’incoronazione del nuovo Augusto magari in Sant’Apollinare in Classe; e a un nuovo vicario imperiale romagnolo che gli cinga il diadema…»; «Eh via, non siate così arrogante, maestro Dante. Ma in fondo, poi, perché no? Che cos’altro mai ci starebbe a fare l’aquila imperiale, sull’arme araldica dei da Polenta, se ciò non fosse una premonizione divina?».

Dante, a Ravenna, si era già ricongiunto con il figlio Piero, ben allogato fra i suoi due redditizi benefici ecclesiastici di Santa Maria in Zanzanigola e di San Simone al Muro, e con la figlia Beatrice, monaca in Santo Stefano degli Ulivi. Sentiva passare inesorabile il tempo, cominciava ad avvertir la stanchezza del suo ventennale peregrinare in esilio e pensava di mettere alfine radici, una volta per tutte, là sull’Adriatico. C’erano molte leggende secondo le quali il porto di Classe, che pur andava insabbiandosi, era al pari di quello di Ostia anche una base di partenza per il lungo viaggio marinaro delle anime, quello descritto all’inizio del Purgatorio. E a quel viaggio ci andava pensando sempre più spesso….