Sulle rotte di Ulisse. Il nocchiero saraceno naufragato al Purgatorio

Certo, quell’Alighieri gli ricordava molto l’altro fiorentino che una decina di anni prima era capitato un po’ di tempo a Sarzana, quel Guido Cavalcanti, amico appunto dell’Alighieri, suo compagno di astruse fantasticherie poetiche, perennemente innamorato di donne irraggiungibili, un po’ eretico (o quanto meno così dicevano in giro) e nemico giurato di un terzo fiorentino, inviso tanto al Cavalcanti quanto all’Alighieri mentre appunto era amico di messer Moroello: parliamo di Corso Donati, che a Firenze era detto «il Barone» perché pare che fosse superbo e prepotente ma che era «guelfo nero» come lui. Al contrario, il Cavalcanti e l’Alighieri erano ferocemente «guelfi bianchi», e al conte parevano piuttosto due ghibellini fanatici. Il Cavalcanti però, l’unica volta che si erano parlati a Sarzana, gli aveva detto di avercela con «l’amico» Alighieri, il quale era membro del collegio dei priori che lo aveva condannato all’esilio sarzanese e non aveva mosso un dito per alleviargli la pena.

Guido era morto pochi mesi dopo quell’incontro: aveva fatto appena in tempo a rientrare a Firenze, quindi non aveva mai avuto la gioia di sapere che il suo «amico» era stato a sua volta esiliato. La differenza era che il Cavalcanti, esule, non sognava che Firenze e non voleva se non rientrarvi quanto prima: forse bruciava dal desiderio di vedere la sua Giovanna, «monna Vanna» ch’era detta Primavera e che pare fosse bellissima. L’Alighieri, invece, non pareva proprio bruciasse dalla voglia di riabbracciare la sua consorte, Gemma, della per lui nemica famiglia dei Donati: l’aveva sposata ventenne un paio di decenni prima e, per quanto le avesse fatto fare ben quattro figli, tutti sapevano ch’era perdutamente innamorato di madonna Beatrice de’ Bardi, peraltro essa stessa defunta nel ‘90.

Difatti, Dante di rientrar a Firenze non sembrava aver alcuna voglia. In cambio aveva supplicato il conte di nominarlo ambasciatore con un delicato incarico presso il vescovo di Luni e di consentirgli d’indugiare da lì qualche tempo in Liguria. Era appunto partito nell’ottobre del 1306 ma, promettendo al conte di fargli aver subito notizie sull’esito della missione, gli aveva chiesto il permesso di assentarsi per qualche settimana in più. Avrebbe voluto arrivare all’abbazia di Bobbio, nel non lontano entroterra piacentino, e poi magari fare un salto fino a Genova.

Ah, ecco, Genova! Ora tutto era più chiaro. Da molti mesi ormai la parte ghibellina aveva rialzato un po’ dappertutto la testa, ed era noto che, ormai, i «guelfi bianchi» toscani erano praticamente dei semighibellini. A Genova il capo del loro partito era Bernabò Doria: era chiaro che l’astuto Alighieri non vedeva l’ora di poter avvicinare quel personaggio. D’altronde egli manifestava dal canto suo una gran voglia di visitare, nella cattedrale genovese di San Lorenzo, quel bacile di vetro verde che i crociati avevano recato nel 1102 come bottino da Cesarea ma che i genovesi identificavano con il Santo Graal.

E in effetti fu quel che fece, imbarcatosi ai primi di dicembre dal piccolo porto di Luni, sfidando le rocce e le correnti ormai quasi invernali delle «Cinque Terre» per approdare nell’accogliente porto di Genova. Il suo vascello attraccò quasi di fronte alla salita che portava alla cattedrale; ma da lì in un minuto si raggiungeva la piazza di San Matteo – piccola, ma la più bella della città, con la chiesa e il palazzo dei Doria (dove Bernabò risiedeva) decorati a fasce orizzontali di candido marmo e di nera lavagna –, e il gioco era fatto.

Quale gioco? Il poeta aveva da molto tempo in animo un viaggio a Genova dove sapeva custoditi nell’abbazia di Pré non lontana dal porto degli autentici tesori in carte nautiche. Aveva nella scarsella una lettera di presentazione del teologo e predicatore Remigio de’ Girolami priore domenicano di Santa Maria Novella che gli avrebbe aperto molte porte. Una soprattutto.

«Guardate, messer Dante, che tutta questa storia del pilota saraceno della nave del mio congiunto Tedisio, quell’Abdullah, è una gran balla», lo aveva affabilmente avvertito il Doria sorseggiando con lui una Malvasìa speziata di San Fruttuoso; a ogni modo – aveva soggiunto ammiccante – vi farò scortare dal mio notaio presso l’arcidiacono del duomo di San Lorenzo: così avrete modo di venerare il Sacro Catino di Cesarea (è proprio vetro, sapete? Che sia divenuto miracolosamente smeraldo perché le labbra del Signore lo hanno toccato durante l’ultima cena è una leggenda), e a quel buon prelato chiederete notizie del suo medico Teodulo»; «Un greco?»; «Beh, più o meno…diciamo così».Due giorni dopo Dante e il notaio di casa Doria, ch’era anche un buon cronista cittadino molto esperto delle cose d’Oriente oltre che del mare (da buon genovese) erano seduti nel refettorio del capitolo canonicale di San Lorenzo, ospiti alla tavola di un bel vecchio vestito di una candida lunga tunica che faceva risaltare il suo volto olivastro, quasi bruno, illuminato da due occhi verdi come il Sacro Catino.

Parlarono a lungo di Genova, delle sue conquiste dei porti del Levante e di quelli sul Mar Nero; e naturalmente del leggendario cronista di casa Doria, Jacopo, venuto da soli pochi anni a mancare; e dell’autentico vanto della politica genovese, l’ammiraglio Benedetto Zaccaria, amico del re di Francia: che però da alcuni mesi era ammalato e non era pertanto possibile visitarlo.

Ciò dispiacque a Dante: il quale sapeva che fino dal 1277 lo Zaccaria aveva inaugurato una rotta navale che, attraverso le Colonne d’Ercole (lo stretto che gli arabi chiamano Jabal al-Tariq, «il Monte di Tariq», cioè Gibilterra),conduceva ai porti fiamminghi e inglesi). «Mi sarebbe piaciuto parlare con lui un po’ dell’Atlantico, messer Teodulo… a proposito, posso osare una domanda forse scortese?».

L’anziano signore parve sorpreso, ma non contrariato: un largo sorriso rivelò la sua perfetta doppia fila di denti scintillanti, eccezionale in un uomo che aveva palesemente passato da tempo gli ottant’anni. «Che cosa volete sapere, messer Dante?», chiese socchiudendo gli occhi.

«Ebbene, messer Teodulo: mi chiedevo se voi siete proprio greco: sapete, a Firenze ambasciatori dall’impero di Bisanzio arrivano spesso, molti parlano benissimo il latino e qualcuno perfino il volgare toscano; ma il loro accento non somiglia per nulla al vostro che invece…posso permettermi? A me ricorda piuttosto quello di altri ambasciatori, i barbareschi delle coste dell’Africa del nord, che sono altresì navigatori eccellenti; e poi…»; «…e poi?…»; «Beh, il mio maestro, ser Brunetto Latini, tra 1260 e 1267 – quando a Firenze governavano i ghibellini, dopo Montaperti – in quanto guelfo fu esule a Toledo, presso la corte di re Alfonso X di Castiglia, l’astrologo, quello che i suoi sudditi chiamano el Sabio, il Mago. C’erano tanti saraceni, a Toledo: grandissimi sapienti, qualcuno anche negromante. E sapete, ser Brunetto qualche parola araba l’aveva imparata, ed ebbe tempo d’insegnarmela. Per esempio che Dio in arabo si dice Allah e che per dire servo, che in greco è doulos, si dice Abd“.

Il medico «greco» e il notaio genovese si scambiarono una perplessa ma in fondo divertita occhiata d‘intesa.«Che cosa volete sapere, messer Dante? Il vostro umile servo Abdullah, che vi ascolta, ha l‘impressione che anche voi siate un po‘ mago, al pari del buon re Alfonso».E allora parlarono a lungo: fino all‘alba. Dante spiegò che aveva raccolto molte leggende nei poemi cavallereschi che parlavano di Troia la Grande e dell‘antica guerra dei greci contro i troiani, e sapeva sia la storia del cavallo cavo di legno nel cui ventre si celavano i guerrieri greci, sia le molte leggende sui favolosi viaggi di Ulisse; e Abdullah gli rispose parlandogli di un navigatore, marinaio ed esploratore di oceani lontani, l‘arabo Sindbad, ch‘era l‘Ulisse dei musulmani.

«Ma voi, mio caro Abdullah, siete stato solo il pilota di messer Tedisio Doria?»; «Beh, caro amico, le vicende di Tedisio sono raccontate dl suo grande zio, Jacopo Doria, che ne sapeva molto anche perché gliene avevo parlato io. Ma soprattutto messer Jacopo fu il generoso finanziatore di un‘altra impresa oceanica, una quindicina di anni fa: quella dei fratelli Ugolino e Vadino Vivaldi, che nel maggio del 1291 partirono proprio da qua desiderosi di viaggiare nel grande oceano che fascia tutta la terra»; «Ma che si dice disabitato…»; «Difatti, ma i fratelli Vivaldi erano affascinati dalle storie delle montagne prodigiose dell‘oceano: le vette di ghiaccio che galleggiano nel mare Oscuro, a nord; l‘isola di San Brandano; le balene-isola che s‘incontrano al largo; la magica montagna di Kahf, che dicono sia il perno del mondo; quella irlandese, il Pozzo di San Patrizio; le isole Fortunate, o dei Beati; e poi la Montagna di Fuoco…ma di quella non voglio parlare. È troppo terribile».

Un silenzio gelido piombò nella stanza. Albeggiava. «Vi prego», implorò Dante: aveva un presentimento. «Beh, messere, se conoscete le leggende delle navigazioni di Ulisse, che somigliano a quelle di Sindbad, sapete anche dell‘ultima: Ulisse, ormai vecchissimo con i suoi compagni, sfidano definitivamente l‘Oceano, e lo fanno per la pura, alta sublime volontà di conoscere…»; «Quando è però eccessiva, noi cristiani la diciamo peccato»; «Anche noi musulmani… Il fatto terribile è che i fratelli Vivaldi, in quel loro viaggio di una quindicina di anni fa che fu un folle volo, intendevano proprio andar in cerca della Montagna di Fuoco»; «Ed esiste? L‘hanno trovata?»; «L‘hanno trovata: ed hanno fatto naufragio. Da quel disastro rimase superstite, ostinatamente aggrappato a un relitto, solo un uomo, già anziano; che dopo aver navigato per mesi in balìa delle correnti tornò qui nel nostro porto; era esausto, dimagrito, allucinato, quasi impazzito».

Dante si era impadronito con mossa quasi violenta del piccolo fascio di penne d‘oca, del vasetto d‘inchiostro e della scarsella piena di fogli di carta che pendevano dalla cintura del notaio. Brandì una penna e scandì, quasi imperioso: «Siete voi quel superstite, Abdullah. Narrate».E il vecchio marinaio divenuto medico narrò: il lungo viaggio lungo la rotta sudovest della nave dei fratelli, l‘avvistamento notturno di una montagna di vertiginosa altezza al centro di un arcipelago misterioso e sconosciuto che alcuni pescatori locali, saliti a bordo, chiamavano Canarie, e quella paurosa montagna, di nome Tenerife, alla quale Dio proibisce che i viventi si avvicinino; e i tuoni e le sfere di fuoco e le fontane di lava bollente che ne uscirono e che provocarono un tremendo maremoto; e la nave che affondò miseramente.

«Ma perché Dio non consente che ci si avvicini a quel vulcano?»; «I pescatori del posto ci dissero che sulle sue spiagge in effetti ogni giorno arrivano migliaia di esseri umani; ma sono soltanto anime, su barche pilotate da angeli. Dicono sia la Montagna del Purgatorio. Io, in quanto musulmano, nel Purgatorio non credo. Ciò è tuttavia quanto essi riferivano».

Dante scriveva febbrilmente. Si sarebbe ricordato, nel poema che andava componendo, di quel racconto; e di Ulisse, che prima dei fratelli Vivaldi aveva assistito a quello spettacolo mirabile e tremendo.