Dalla Mauritania a Firenze, la doppia «fuga» di Aboubakar

«Sono sbarcato a Lampedusa» dice Aboubakar in un italiano ormai fluente dopo alcuni anni qui. Ha 25 anni e viene dalla Mauritania, uno dei Paesi più desertici del continente africano. Dopo aver attraversato il tratto algerino del deserto del Sahara, per raggiungere la Libia, dopo essersi confrontato con i vantaggi e i problemi che questo Stato arabo offriva rispetto al suo, ha preso il mare per raggiungere l’Europa. Ma perché lui, come tanti altri, fanno questa scelta?

«Ho lasciato la Mauritania perché c’erano problemi di politica, di guerra. In Africa la politica non va. In molti Stati africani funziona così: tu diventi presidente e non vuoi più andare via, aiuti i tuoi parenti, pensi a te stesso, ma il resto delle persone non contano niente. Nessuno vuole lasciare il posto ad altri, dicono che gli altri sono stranieri perché magari sono figli di persone arrivate da un altro Paese: ma il mondo non è nato con gli Stati, tutti arriviamo da un altro posto. Nessuno sceglie dove nascere».

Ha passato ben tre anni in Libia, dove alcune cose funzionavano meglio, ma altre non come sperava: «Quando sono arrivato lì non conoscevo nessuno e questa era una difficoltà. Mi hanno chiesto perché ero diventato un rifugiato, così giovane. Ho spiegato che quando c’è la guerra hai paura, non puoi fidarti di nessuno. La mattina stai tranquillo, ma la sera nessuno conosce più nessuno: tutti rubano, tutti si sentono in pericolo. In Libia sono stato contento di una cosa: il presidente veniva spesso a trovarci al campo dei rifugiati. Salutava e dava la mano a tutti, chiedeva a tutti se stavamo bene e se avevamo bisogno di qualcosa. Molti dicono che è una cattiva persona, ma io credo di no. Ha intorno molte cattive persone, ma per quello che ho visto lui con noi si è comportato bene. E quando è arrivata la guerra, lì abbiamo avuto questa possibilità: potevamo scappare in mare o restare. Nessuno ci ha obbligati a stare lì o ad andare via. Però arrivare da solo, senza conoscere nessuno, è stato difficile: se non hai nessun parente che ti accoglie, che paga per te, è difficile. La polizia ti controlla e devi pagare molti soldi. Poi non capivo cosa dicevano perché loro parlano solo arabo. Anche l’inglese lo parlano poche persone in Libia. Quindi non puoi nemmeno spiegare le cose ai poliziotti. Se ti trovano senza timbro, senza visto, ti mettono in prigione. E se non hai un fratello che paga per farti uscire, ci resti».

Spesso dalla nostra piccola Italia, vediamo l’Africa come un’unica grande realtà, ma le differenze al suo interno sono tante. «Quando sono arrivato in Libia per loro ero diverso: io sono nero, loro sono bianchi. Loro parlano arabo e io non lo capisco. Anche se riesci a trovare un lavoro, e ti tengono perché sei bravo, il modo di lavorare è diverso. Qui in Italia, come si fa nel mondo, lavori, ma il sabato e la domenica vai in giro, vai in centro, sei tranquillo. Questa cosa nei paesi arabi non c’è: vai a scuola e torni a casa. E a scuola ti fanno studiare solo come si fanno alcune cose, non tutte le cose del mondo. Devi fare le cose che ti dicono, come te le dicono».

La decisione di lasciare la Libia per avventurarsi in mare, per trovare una nuova vita in Europa, in Italia, a Firenze, non è stata studiata. «Sapevo poco dell’Europa. Ma sono iniziati i bombardamenti. La notte mi sono svegliato, tutti ci siamo svegliati. Non potevamo dormire con le bombe. E non sapevamo quando sarebbe finito. Il presidente Gheddafi disse che lui sarebbe rimasto lì, che sarebbe morto lì. Chi stava con lui doveva restare, ma nessuno era obbligato. Chi voleva fuggire poteva fuggire. E quindi cosa potevo fare? Quando c’è guerra non puoi lavorare, non puoi andare al mercato, non c’è benzina e non ci sono negozi aperti. Io volevo lavorare e vivere».

La guerra civile libica ha causato la seconda fuga di Aboubakar. La fuga che aveva il mare come unica speranza. Una barca affollata come unico mezzo. Ed è la paura a farla da padrone. «Tanta gente sulla barca. L’acqua entrava. Non sapevo se saremmo arrivati vivi a Malta o in Italia. Poi la polizia italiana ci ha salvati. Ci hanno dato cibo e vestiti». Quei primi giorni nel nostro Paese sono confusi nella memoria del giovane, ma quello che sa è che adesso, grazie all’aiuto della Caritas, ha un posto in cui vivere e un lavoro per mantenersi. È la casa di accoglienza San Paolino, dove uomini e donne migranti vengono aiutati a trovare un nuovo posto nella nostra società, per trasformare l’immigrazione in una risorsa per tutti. «Dal sud Italia ci hanno spostato con autobus e alla fine io sono stato lasciato a Firenze. In questa casa ho trovato un grande aiuto dalle persone che ci sono: tutti mi hanno accolto come uno di loro. Non mi sono sentito diverso. Sono andato via da casa per arrivare in un’altra casa. Adesso lavoro, faccio le pulizie. Posso vivere come si dovrebbe vivere».