I coniugi Cabib e il loro fattore: una storia di fiducia

«Vite salvate». Si intitola così una linea di ricerca portata avanti dall’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea in provincia di Lucca. E sono proprio «salvate» – salvate dalla morte, una morte sicura, una morte di innocenti provocata da una guerra che pure stava terminando – le vite cui si riferisce un piccolo, prezioso, volume uscito a gennaio e introdotto da alcune pagine firmate da Silvia Angelini (di quell’Istituto storico) e da Pietro Finelli (della «Domus mazziniana» di Pisa), due realtà convinte «che la conoscenza del passato sia punto di riferimento necessario per la costruzione di una coscienza civica critica e consapevole». Il libro lo ha voluto un politico pisano della cosiddetta «prima repubblica» che, superato l’inevitabile imbarazzo di raccontare storie nelle quali fu coinvolto suo padre, ci regala un concerto di voci diverse impegnate a suonare una sinfonia importante: «storie di coraggio morale e di vite salvate durante la guerra e l’occupazione nazista e fascista», spiega bene il sottotitolo del volume (Accadde a Palaia, CLD libri, gennaio 2019) con testi di Piero Pizzi, Liana Cabib, Roberto Taddei, Roberto Boldrini.

È proprio a Piero Pizzi, già consigliere regionale dc, si deve il racconto di base: la storia «semplice» che vide suo padre Attilio, fattore in un’azienda agricola in Palaia (Pisa) appartenente a una famiglia ebrea, salvare quella famiglia da un nazifascismo che la voleva sterminare.

Il piccolo Piero, nato a Palaia nel marzo 1940, conserva ricordi diretti. Compreso quel «piccolo schiaffo» che Isacco Cabib, il capofamiglia ebreo che suo padre nascondeva salvandolo da una morte pressoché sicura, gli affibbiò in una «notte tremenda». Siamo nel giugno 1944. Isacco e Linda, marito e moglie, ebrei livornesi, proprietari dei poderi, alcuni dei quali a Palaia, nei quali Attilio Pizzi, babbo di Piero, era apprezzato fattore sono rinchiusi in un rifugio. Con loro donne, anziani e bambini terrorizzati.

A essere terrorizzato, quella notte, è anche Piero. Poche ore prima, da quel rifugio, erano scappati tutti gli uomini, compresi Attilio e gli altri figli maggiori. Erano scappati proprio in tempo, evitando l’irruzione di una pattuglia tedesca. Tutti gli uomini furono catturati, caricati su autocarri per essere internati (per fortuna molti ce la fecero a fuggire e a rientrare a casa).

Ma nel rifugio c’è il terrore. Tutti, lì dentro, sanno che i tedeschi sarebbero arrivati e lui, il piccolo Piero, si mette a piangere. Un pianto dirotto che Isacco Cabib cerca di far cessare. Piero è troppo piccolo per capire e Isacco – scrive Piero Pizzi – «mi allungò un piccolo schiaffo: fu il gesto, e non una punizione fisica, che ottenne il risultato di farmi tacere ma il dispiacere fu grande».

Fu nel 1938 che il babbo di Piero, nato nel 1907, divenne fattore dei Cabib, che risiedevano a Genova. Tale rimase fino a che, morti i proprietari, nel 1970 i numerosi eredi decisero di vendere un’azienda ormai coinvolta nella crisi della mezzadria (insignito dal presidente Saragat dei titolo di Cavaliere al merito della Repubblica, Attilio morì nel 1994).

Era benvoluto, Attilio, al punto tale che quando Isacco Cabib lo incaricò, nel 1938, di amministrare l’intera fattoria, vennero convocati tutti i capifamiglia per una sorta di, assai inusuale per il tempo, referendum che Attilio passò all’unanimità.

Nel racconto di Piero non mancano notazioni gustose sulla vita ordinaria in quella fattoria, ma il clou sta tutto in quei terribili mesi del 1944: il periodo finale della guerra prima della Liberazione. Quelle campagne divennero terreno di accoglienza per gli sfollati dalle città e tutti stavano in rifugi appositamente scavati oppure nelle grotte (le «tombe») esistenti da secoli.

In base alle leggi razziali, la RSI obbligava i carabinieri a dettagliare gli elenchi di «ebrei da internare». Fra questi la famiglia Cabib (104 ettari di proprietà, 10 poderi ceduti a mezzadria, una villa padronale per un valore di circa un milione di lire). 9 ebrei di Palaia vennero arrestati a fine dicembre 1947 per il successivo internamento, ma sulla famiglia Cabib non si era potuto procedere. I suoi componenti – moglie, marito e figlio – risultavano «irreperibili».

Ma «reperibili» sarebbero certo stati se non fosse intervenuto il fattore Attilio. I Cabib vivevano rimpiattati; nei boschi e nelle grotte. E Attilio, convocato più volte dai carabinieri, si rifiutò di dire la verità esercitandosi in una sonora bugia, di quelle a fin di bene («Si era premurato di diffondere la voce della loro partenza – scrive Piero – per evitare delazioni che in quel periodo erano molto frequenti»).

Passa il fronte. Finalmente nell’agosto gli americani arrivano a Palaia («Splendida giornata di sole, clima di festa, autocarri e camionette, sidecar e carri armati americani che passavano sulle nostre strade diretti al fronte oltre l’Arno, dispensando caramelle, cioccolate, marmellata, burro di arachidi e il pane bianco fino ad allora sconosciuto»).

Introdotto dal sindaco di Palaia, Marco Gherardini, il volume si chiude con una nota sulla Palaia agricola dagli anni Trenta alla fine della guerra: la mezzadria, le fiere, il mercato del bestiame, quello settimanale, le proprietà di famiglie ebraiche. C’è un ricordo del vescovo di San Miniato, Ugo Giubbi, che chiese a tutti i parroci «di prendere paterna cura spirituale e anche materiale degli sfollati col visitarli, confortarli, consigliarli e soccorrerli» (in quelle campagne la massa di sfollati venne quantificata in 1.500/2.000 persone, quasi un 25% in più della popolazione residente. E l’episodio di «resilienza» umana e civile di Attilio Pizzi non fu certo l’unico). Le ultime pagine trattano delle prime lotte politiche nell’immediato dopoguerra in vista delle prime elezioni amministrative libere. Quelle della primavera 1946.