Don Franco, il prete che sa stare tra la gente

Parafrasando il titolo di un vecchio film della saga «Don Camillo e Peppone», potremmo dire che don Franco Cencioni è un «monsignore ma non troppo», perché al titolo ha sempre anteposto il suo desiderio, anzi il bisogno di essere tra la gente, con la gente e per la gente. Un prete con addosso l’odore delle pecore – per dirla con Papa Francesco – poliedrico quanto basta per occuparsi davvero di tutto: dalle parrocchie, ai beni culturali; dai giovani, agli anziani; dalla cura spirituale delle persone alla costruzione delle chiese. 

La sua ultima fatica, quella che lo sta impegnando con l’entusiasmo e la gioia di chi crede che «non si finisce mai di iniziare a camminare», è la pubblicazione del secondo volume della «Storia ecclesiastica della città e della diocesi di Grosseto» di Francesco Anichini, per la quale si sta dedicando con la solita dedizione, ma anche con una buona dose di sana «follia», sapendo che più le imprese sono alte, più la sfida per lui diventa affascinante.

Coriaceo e santamente testardo come solo sanno esserlo i maremmani, abituati a lottare contro le disavventure della vita, a cadere e rialzarsi, ma anche «aperti ai venti e ai forestieri» – secondo una felice espressione dello scrittore grossetano Luciano Bianciardi – don Franco Cencioni ad 88 anni non è ancora domo. Nel suo sguardo vispo c’è l’entusiasmo curioso di chi ha ancora voglia di mangiarsela la vita, grato per quel che ha sperimentato, ma non per questo appagato; attento alle novità, appassionato dell’uomo, non come lo vorrebbe, ma com’è. È prete da 64 anni: fu ordinato il 23 dicembre dell’anno santo 1950 a Porto Santo Stefano (lui nativo dell’entroterra collinare maremmano, dove la vita era soprattutto spaccarsi la schiena sui campi o nelle miniere), in occasione della consacrazione della chiesa parrocchiale della località turistica, ricostruita dopo la distruzione dei bombardamenti bellici del ’43.

Da allora don Franco non si è più fermato. Aiutato da un fisico longilineo ed asciutto, ma soprattutto dall’essersi buttato corpo e anima nell’avventura della vita, non ha mai detto no ad ogni sfida pastorale che i vescovi gli hanno messo davanti. «Per me – dice oggi – essere prete è questo: sentire di far parte di quella compagnia che Gesù volle quando chiamò i primi dodici apostoli perché stessero con Lui. Questo ho cercato di fare», dice mentre pesca nei ricordi (ha una memoria di ferro) e «condisce» di aneddoti divertiti ogni racconto della sua esistenza, che ogni volta appare come una cavalcata impetuosa – da purosangue maremmano indomito – dentro una vita sacerdotale che non  ha conosciuto soste, cedimenti, titubanze. E soprattutto sempre tra la gente. «È per loro che sono stato ordinato prete – dice con semplicità – La mia è una vocazione apostolica, per cui ho sempre avvertito l’impegno, la soddisfazione, la gioia e – lo confesso – talvolta anche la fatica, di vivere in mezzo alle persone che i miei vescovi mi hanno affidato». E i campi che don Franco Cencioni ha «arato» sono stati molti: l’Azione Cattolica, parrocchie piccole e grandi, i giovani studenti delle scuole superiori in cui per molti anni è stato insegnante di religione, il Cif, la Misericordia e molte altre realtà.

All’interno della Chiesa di Grosseto ha fatto tutto, a partire dal costruttore, quando fu mandato a Marina di Grosseto a fare il parroco, nei primi anni ’50, con la chiesa tutta da costruire e una comunità cristiana da edificare. «Non avevo nemmeno come raggiungerla, Marina di Grosseto, in quei primi anni ’50 – racconta a distanza di decenni – Mi ricordo che noleggiai una bicicletta coi soldi che mi prestò un confratello». Quella nella località balneare fu un’esperienza felicissima: «Non avevo una stanza dove alloggiare, mi ospitò un costruttore offrendomi l’uso di una camera ancora allo stato grezzo, di una casa che stava costruendo. La camera era al secondo piano e per andarci bisogna salire una scala in legno, di quelle che usano i muratori. Ebbi la soddisfazione di veder venire su la chiesa mattone dopo mattone e con essa anche la comunità cristiana».

Ma sul più bello fu richiamato dal vescovo: a Marina arrivarono i Padri Carmelitani e don Franco montò di nuovo in sella alla sua bicicletta per fare l’obbedienza. Arrivò nel capoluogo, vice parroco della Cattedrale, all’epoca la parrocchia più vasta di Grosseto. Si dedicò ai giovani con la sua solita passione: allestì per loro due stanze attigue al Duomo, con biliardini e qualche altro gioco e iniziò – primo in Maremma – l’esperienza dei campeggi estivi al mare.

Nel ’55 un nuovo trasferimento: parroco a Giuncarico, un piccolo paesino dell’entroterra collinare, simile – per storia – alla sua Boccheggiano, dove era nato. «Arrivai il 31 dicembre 1955, pochi mesi prima c’era stata la tragedia di Ribolla, definita da tutti la Marcinelle italiana, dove persero la vita decine di minatori, molti dei quali vivevano con le famiglie proprio a Giuncarico. Arrivai e trovai una situazione di fortissima desolazione: famiglie intere che non sapevano letteralmente di che mangiare. Ne parlai subito col vescovo Paolo Galeazzi e insieme andammo a Roma per bussare alla porta della Poa (la Pontificia opera assistenza), la quale predispose l’invio di un vagone pieno di generi alimentari, che permisero alle famiglie di Giuncarico di superare l’inverno, in attesa che la miniera riaprisse e ritornasse anche il lavoro».

Nel paese collinare furono diciotto mesi intensi sul piano pastorale, poi nel ’57 il trasferimento a Bagno di Gavorrano, di nuovo tra gli operai, in un clima di collaborazione e talvolta di frizione ideologica, ma sempre orgogliosamente al pezzo, nella convinzione che il Vangelo è una relazione e passa dalle relazioni.

«La mia vita di prete è stata costellata sempre da tappe significative – dice adesso don Cencioni – e le ho sempre vissute con entusiasmo, rispondendo con l’obbedienza a quello che i vescovi mi chiedevano, sapendo che in ogni richiesta c’era la necessità di dare una risposta ad un bisogno della gente. Ogni trasferimento pensavo che sarebbe stato l’ultimo e invece ce ne sono stati tanti, ma ho guardato sempre lontano, senza perdere mai di vista le necessità del momento a cui far fronte con entusiasmo e senza perdersi d’animo».

Successivamente don Franco è stato parroco del Duomo, proposto del Capitolo della Cattedrale, direttore dell’ufficio beni culturali ecclesiastici della Diocesi, ma è stato e continua a stare con la stessa curiosità e la stessa passione di sempre in mezzo alla gente, più fuori dalla porta di chiesa che sulla soglia, convinto come è che «la gente la si incontra dove vive, ama, soffre, spera». Lo ha fatto da giovanissimo sacerdote nei primi incarichi nelle parrocchie; lo ha fatto ancor di più nei giorni successivi a quel terribile 4 novembre 1966, quando l’Ombrone uscì dagli argini e Grosseto finì sott’acqua. «L’alluvione della povera gente», così è stata ribattezzata quella tragedia collettiva, nella quale il capoluogo maremmano fu ferito due volte: una dalla furia delle acque che non risparmiarono niente e nessuno, una seconda dall’indifferenza dei grandi mezzi di comunicazione, concentrati tutti solo su Firenze.

Tra i primi a tirarsi su le maniche della tonaca, ad allestire il primo centro di smistamento di aiuti (coperte, generi alimentari, prodotti per l’igiene, vestiario) fu don Franco, aiutato dal Cif e dai giovani di Azione Cattolica. Così come non mollò la presa quando, negli anni ’70, si trattò di gettarsi in una nuova avventura: costruire una casa vacanze per i bambini della Maremma nella «sua» Boccheggiano. Fece stampare della cartoline con l’immagine della costruzione avviata: «Se ognuno di noi contribuisce con quanto può – scriveva nella cartolina – anche con 1000 lire, insieme daremo un colpo d’ali al “nostro lavoro”». La risposta arrivò e fu generosa, per la capacità di questo dinamico sacerdote, che ha condotto una vita ordinaria fatta di gesti ordinari, dentro una pastorale ordinaria, ma che ha saputo rendere tutto straordinario perché ha amato e continua ad amare quella scelta di vita che l’ha reso appagato, felice, pienamente se stesso. E oggi continua: tra i carcerati, nelle case di riposto, al telefono, tra chi lo ferma lungo il corso cittadino per chiedere un consiglio, un aiuto; a piedi col suo passo veloce, ma con lo sguardo sempre dritto davanti a se per incrociare gli occhi dei grossetani. Che ricambiano stupìti per la carica di un giovane vecchio «monsignore, ma non troppo».